Era ancora il millennio scorso quando eravamo amici, io e te.
Eravamo due pischelli a scuola casualmente assieme, ci contendevamo i voti migliori, ci alleavamo contro la prof di Tecnica mentre a me spuntavano le tette e a te i baffi. Mai troppo legati, sempre sul filo della competizione. E le prese per i culo, ricordi?, quando mi ammazzavo con gli ostacoli, o quando ci misero una notaccia credendo che facessimo i compiti in classe a quattro mani. Seee vabbè.
Poi tu e la tua moto siete spariti, un'altra scuola e altre amicizie, e il mio batticuore acerbo e nebuloso per te è scemato a metà inizio. Mi hai incontrato una volta in centro con il moroso, che veniva anche lui a scuola con noi, e sembrava che avessi dimenticato il nostro cameratismo.
Un secolo più tardi un'amica comune ci ha fatti rivedere. Piccola la nostra cittadina eh?, e tu eri un uomo fatto e finito, uno che usciva da una storiaccia di corna subite da quella bionda stronza che studiava due file dietro di me in facoltà e che per cinque-anni-cinque ti aveva tenuto il cuore nel pugno. E tu, vedovo di gonne e di voglia di studiare, c'hai messo radici in quelle aule, vicino a me a tracciare proiezioni tridimensionali e diagrammi del tuo corso mentre ti usavo come cavia per i miei esperimenti sulla percezione del colore e riempivamo di caricature il retro delle mie dispense.
Ma anche io uscivo - ed entravo - in una storia, di quelle di sesso e sudore e sentimenti (suoi) da tenere a guinzaglio corto, con quel belloccio che piaceva tanto alla nostra amica in comune e che per questo dovevo tenere segreto, il più possibile pubblicamente distante da me. Così dal cilindro abbiamo tirato fuori quella conveniente farsa di me-e-te-assieme per far rosicare la tua ex e desistere il mio trombanemico. Eravamo bravi, tremendamente bravi a fingere di appartarci, a lanciarci occhiate fintoamorose e invece eravamo ancora due vecchi amici che si volevano bene, il secchione e il maschiaccio un po' cresciuti. Eravamo così bravi che ci sono cascati i miei, i tuoi, le amiche, gli amici: faceva comodo dire che stavamo assieme, era sia la strada più breve per definire il nostro affiatamento sia una grande strategia difensiva... anche senza più attacchi, anche quando la tua ex ha cambiato facoltà, anche quando il trombanemico è stato cacciato dal mio letto. Due ottimi attori perseveranti, chapeau.
Ma io dovevo complicarmi la vita, io dovevo innamorarmi di te in quella maniera ebete e smembrante che a vent'anni si conosce bene - e chiudere con il trombanemico perché no, non ci riuscivo proprio più a vivere dissociata. Figuriamoci che non provavo più alcuna pulsione verso nessun altro - assurdo! improvvisamente coerente, sincronizzata, consapevole e perfino un pizzico retta! Per ogni sospiro finto ce n'era uno vero che speravo, per ogni cinema a due c'era un bracciolo di troppo, per ogni passaggio in auto sognavo un epilogo romantico. E no, non veniva mai. Eravamo sempre io e te, sempre da soli, sempre in quelle situazioni con inciucio quasi d'obbligo - che una coppia sul nascere avrebbe pagato per avere a portata di mano - e tu nulla, e io nulla.
Gelosi per finta, assieme per finta: un disastro che quasi quasi mi rassegnavo. Anzi mi ero rassegnata senza neppure provare a vedere cosa, perché, perché no. Sentivo che era impossibile e mi rifiutavo di sperare. Fino al nuovo millennio, alla sera delle risate ammezzate, di un tavolino fumoso in un pub con le mie amiche appena dietro di noi ad analizzarci, e in corpo due litri di vino rosso scelto da te, quello buono, per rilassarci, per passare l'esame del gineceo. Lo sai che ti sei scelto la condanna, sì? Lo sai che hai scelto di flirtare come mai fino ad allora, di allungare le mani verso le mie guance, di superare quella barriera educata ed asettica che ci definiva ancora amici, alleati, e sei arrivato di proposito oltre. Sei arrivato a non ricordare dove avevamo parcheggiato, a prendere la strada di casa mia, a fermarti a metà tragitto senza dare spiegazioni, a chiedermi di cambiare la stazione radio. Non avevamo più bisogno di fingere ora che nessuno ci controllava più. La sbornia, sì, va bene, faccio finta di crederci anche se siamo entrambi vigili. E quelle parole mitragliate senza preavviso addosso a noi
tra dire e fare tra miele e sale
resto a sentire i tuoi pensieri per me
che fanno rumore
e tu lasciami fare
a me basta restare un po'
un po' di tempo a parlare insieme a te
solo a parlare
non voglio fare l'amore
a me basta guardarti un po'
guardare i tuoi movimenti così lenti che
mi fai sentire che
fammi sentire che
Perché le abbiamo canticchiate? Melense, stupide. Troppo insaporite di quella bolla di vino e batticuore. Decisamente golose come antipasto alle tue labbra prepotenti sulle mie, alle tue mani isteriche nella frenesia di scostare i capelli miei, i tuoi, i miei, aggrovigliati come i pensieri che ho lasciato fuori dalla cinquecento. Smessa la finzione pubblica di essere una coppia, cosa avevamo combinato in quell'auto, da soli? Due ore di baci, baci-e-basta, come se fossimo tornati indietro ai nostri tredici anni, senza volere di più, senza respirare, senza una parola. Baci e ancora baci e mai a sufficienza, ché le labbra fredde soffrivano nei 200 secondi da lì a casa mia, e baci baci baci e la buonanotte e il "ci vediamo domani".
E quel domani non eri dove dovevi essere e io non rispondevo ai tuoi squilli. Perché? Per valutare, dicevo, ma valutare cosa benedetta ragazza, cosa c'è da valutare e rimestare nel calderone di quello che avevo sognato e ottenuto? C'era una spiegazione, anzi due: una che bramavo (che tu eri innamorato di me, ma timidissimo come sempre non osavi) e una che temevo (colpa dell'alcool, della singletudine, della farsa che avevamo imbastito fin troppo bene). Imbecille io ad aspettare e non chiederti più nulla e imbecille tu a non farmi più parola di quella notte. Sì, ero convinta che me ne avresti parlato E mi cagavo addosso dalla paura di sentire cose che non volevo. Mese dopo mese, mai una parola, obblighi di frequenza a dividere ore che avremmo passato assieme. Poi una stilla di coraggio, convocarti da me, averti davanti e non riuscire a chiederti nulla del discorso provato allo specchio, e mandarti via senza un perché. Smettere di rispondere ai messaggi, smettere di cercarti, smettere di chiedere di te - ma chiedermi sempre, sempre a chi dei due mancavano di più le palle. Smettere di esistere nella tua vita e rimanere ostinatamente fedele a te che non eri stato nulla se non finzione, con la testa il cuore le gambe tutto impenetrabile per mesi, per anni.
Poi c'è passata la vita in mezzo senza sapere più dove fossimo finiti. Tredici anni.
Un mio ritorno a casa, una casualità burlona e di nuovo te di fronte a me e occhi fuggevoli e infiammati. Sì, sono io. Che fine ho fatto? Che fine hai fatto? Cos'è successo in questo intensissimo frattempo che ha portato entrambi lontanissimi dai progetti con cui eravamo partiti "allora"? Meno capelli e più chili da entrambe le parti, una ruga nel mezzo, ma siamo di nuovo noi come allora e ci guardiamo di sottecchi e ci studiamo. Il frangente, dieci giorni di terribile torturoso frangente formalissimo, non ci ha aiutati a superare l'imbarazzo oltre il "oh che caso!" ed il far finta di non esserci riconosciuti già dalla voce... inutile pagliacciata a cui non ho creduto nemmeno un secondo. E l'ultimo giorno te la butto là: dammi il numero, un caffè e due chiacchiere, e la tua voce accetta ma poi il tuo sms rifiuta perché vorresti, ma se chi è vicino a te ora accettasse un invito equivalente non la prenderesti bene. Un caffè, diomio! Un caffè con una vecchia compagna di studi (o forse è un caffè con una quasi-ex potenzialmente pericolosa? quanto vorrei sapere quale etichetta hai scritto sul ricordo che hai di me...). Lo so che avrei scoperchiato un vaso di Pandora, giù come un ariete dopo questi tredici anni che ci hanno zavorrato a sufficienza per farci rimanere saldi a terra senza alcun pericolo di divagazioni; avrei fatto quelle domande ammuffite, avrei tirato fuori fotografie mentali in comune, senza paura né vergogna, come si fa coi capitoli chiusi. Peccato che quel capitolo è stato abbandonato e non chiuso e qualche risposta serena e distaccata, benché fumosa come tuo solito, l'avrei tanto voluta ricevere e magari dare. E dirti grazie di essere passato nella mia vita, chiederti scusa dei danni che ho provocato alla tua, e salutarci senza carichi pendenti. Per rispetto verso il mio passato, verso la me ventenne fifona e astratta, per dimostrarle quanto fosse cazzona quella paura di sapere. Ma forse anche tu vuoi rispettare il tuo passato e non vuoi farmi/farti domande e non vuoi rispondere alle mie e men che mai hai bisogno del mio grazie e delle mie scuse, forse TU hai scelto di lasciarmi perdere tacendo tredici anni fa e me l'hai confermato ora. Forse non hai scelto ma hai lasciato scegliere me e ti sei adeguato passivamente. Forse ti ho fatto credere che non me ne fregava nulla mentre mi logoravo chiusa in casa sigaretta dopo sigaretta invece di dire le cose in faccia. Forse non te n'è mai fregato nulla. Forse c'hai solamente provato e il vino ti ha aiutato. Forse eri cotto e fifone quanto me.
A quei due ventenni lì spaccherei la faccia, pezzi d'idiota. Poi scrollerei lui e obbligherei lei a fare domande invece che conservarle in formalina per il "meglio tardi che mai". Non sapeva, quella ventenne, che tardi non è meglio ma è tardi e basta. Che la formalina conserva ma non fa tornare viva la carne una volta immersa.
Ma cazzo, la saggezza tardiva non è buona nemmeno come carta igienica.