Il catechismo, le gite, la rete di pallavolo, la me con le trecce lunghissime che schermava il rossore dietro due occhialoni da secchiona. Bubble-gum da spiaccicarci in faccia, braccialetti a molla che lasciavano i lividi, e in mezzo un fermoimmagine.
Quegli occhioni blu e i denti grossi, sporgenti, una cancellata ordinata di sorrisi che mi shakeravano il cuore... oh, quel cuore, ingenuotto. Quanto batteva per lui: in pullman incrociandolo per caso, nascondendo il buco nero di lui abbracciato alla più figa della scuola, calpestando le sue stesse scale più di dieci anni dopo, in un dipartimento di filosofia dove "mai davvero - maimaimai - pensavo di rivederti qui".Una marmaglia di ormone femminile in subbuglio per lui, ma io no, io non volevo farne parte. Io tacevo, forse speravo? e attendevo che passasse, o che lui si accorgesse di me.
E poi gli scivoli, le altalene, la nebbia intrappolata in quei libri portati a mano e slabbrati corsa dopo corsa. Sua mamma e il suo clacson per farci spostare. Il suo fratellino dolcissimo che riempivo di baci e slanci disinteressati.
E i lacci dei miei scarponi da trekking al campo-scuola, che intrecciava così bene, così da grandi.
E grandi non lo eravamo lì, allora, e non lo siamo nemmeno ora, David, ora che le tue parole atterrano sulla carta stampata col tuo nome in copertina.
Chissà se mai hai avuto la misura di quanto ti adorassi.
La mia prima cotta, mai ammessa.