E' che a noi donne dicono che non fa male, ci convincono che tutto può essere sopportato: dolori mestruali, dolori di testa, strazi del cuore. "Quello che non ammazza ingrassa" ci ripetono fin da bambine, ed allora mentre i nostri padri/mariti/fratelli/figli svengono davanti ad un 37.5 di febbre noi giriamo il mondo e facciamo la ruota con il ciclo e ci lanciamo col paracadute; e ovviamente le nostre preghiere di avere una giornata di 48 ore e due paia di braccia in più, come le statue indiane, non vengono nemmeno prese in considerazione dai Piani Alti.
Noi partoriamo con delle ostetriche che minimizzano le doglie, tanto "signora lei non è la prima né l'ultima e le assicuro che non ci si rimane secche". Diamo le tottò al gradino che, cattivo, ha ben pensato di scontrarsi con la testa d'un bimbo ai suoi primi passi, ma poi se incolliamo la mano nella guarnizione del forno "non è niente". Certe volte rimaniamo in posizione geroglifico dopo esserci fatte un shampoo o una ceretta, ma non fa niente nemmeno lì.
Posso dire che mi fa male qualcosa, invece? Che non c'è tachipirina o buscofen che serva?
Faccio una scatola e fa male. Ne faccio un'altra e fa un male porco. Le faccio da sola, non voglio nessuno attorno, perché mi porterebbero alla neuro se mi vedessero. Mi incazzo, mi stringo le ginocchia al petto e piango, seduta a terra tra uno scaldaceretta e un manubrio. Piango in questa casa che va a pezzi, nella mia vita che si smonta di qua e rimonta di là, proprio adesso che avevo iniziato a trovare un criterio logico - logico, ma MIO - per mettere ordine, fare in modo che sia tutto facile da trovare e da riporre, perfino cercando di arginare i danni della pigrizia cronica del Consorte. Queste mura iniziavano ad essere complete, coi giusti vuoti e i giusti pieni, pieni di me, del mio estro, degli accostamenti cromatici da daltonismo estremo, coi miei stencil e le mie manate unte attorno agli interruttori. Stavo scalfendo la pelle dell'edificio a forza di vivere ed assorbire questa casa.
Da pochi giorni ho iniziato, e adesso non c'è più niente di accogliente nella mia bombonierina, e forse non voglio neppure che sia accogliente la prossima. E' qui che voglio stare, se potessi fare come ne "La Fabbrica di Cioccolata", prendere una casa e portarla altrove tutta intera senza spostarle nemmeno una tegola. Non ho voglia di cambiare l'ordine dei cuscini sul divano, non ho voglia di imballare e disimballare tutti i libri e i dvd che sono già perfettamente in ordine tematico così, non ci penso nemmeno ad aggiungere dei moduli alla cucina o al mobile del salotto. E a stirare tutto il vestiario che dovrò impacchettare? Perchè io non vivo come una trslocanda, non ancora: impacchetto ma non troppo, sposto e smonto ma non troppo. Voglio stillare fino agli ultimi secondi il bene che voglio a questa casa e non tradirla così in anticipo, come se avessi fretta di lasciarla e di affezionarmi ad un altro spazio.
Ma chi me lo fa fare? Devo vivere per tre mesi in questa sensazione di provvisorio, di indefinito, di "sarà troppo tardi quando sarà tutto chiaro", di precedenze tra azioni. Non voglio dovermi spostare nell'ultimo punto della terra dove vorrei essere, legata mani e piedi alle decisioni altrui, controllata a vista, oppressa, mai sola... io voglio essere sola!, come lo sono qui, una faccia anonima tra mille. A me piace non incontrare conoscenti al super. Mi piace da matti. Mi soffoca già il pensiero di dover rinunciare al mio anonimato.